27.06.2008 | Vino e dintorni

Vini taroccati e nobili etichette tra frodi e ipocrisie

Mozzarelle alla diossina, vini contraffatti o costruiti con l’acido muriatico di certo non fanno lustro all’immagine del buon vivere tutto italiano che da sempre ci ha contraddistinto all’estero. VelenItaly era il titolo del tragico scoop del settimanale l’espresso uscito in concomitanza, guarda caso, della fiera veronese, scoop secondo alcuni essere risultato poi… una bufala. Ma a parte le polemiche di chi ha ragione o ha torto la questione va comunque analizzata nel bene della nostra stessa salute.

Partiamo dal presupposto che degustare è diverso da bere e chi beve non è interessato alla qualità ma bensì al suo opposto e ognuno beve ciò che si merita dal momento che il senso del gusto corrisponde alla rozzezza o meno dell’intelletto.

Il vino è costoso
, al di là di tutte le sperequazioni immaginabili della filiera commerciale, fare vino costa. Assodato ciò come si può pensare di bere vino buono e soprattutto sano ad un costo così basso quando solo tappo, vetro, capsula ed etichetta possono incidere su una bottiglia dai due a tre euro? È pensate pure di trovarlo in bella mostra in un supermercato senza il peso di ulteriori costi aggiuntivi?

Meglio andare alla ricerca di vino sfuso comprato direttamente nelle cantine o nelle enoteche attrezzate per questo. Potreste rimanere sorpresi nel notare quanta qualità si trova in questi ultimi anni nel vino sfuso.

Il merito? Della crisi, naturalmente, che ha riversato nelle cantine sociali le uve di molti produttori privati disperati. Non tutti i mali vengono per nuocere e, per lo meno, chi beve per saziare la voglia di quantità può rivolgersi a questi distributori di liquido alcolico nella certezza che non andrà a ingurgitare acido muriatico o fertilizzante addizionato con zucchero. La cosa che fa sorridere, però, è la questione Brunello che ha visto nella azienda Banfi di Montalcino il capro espiatorio di un’ usanza, si fa per dire, che si protrae da secoli.

I francesi già nel lontano 800 erano usi ad acquistare vino calabrese e dalla Sicilia, per tagliare i propri vini che vendevano in tutto il mondo. Il sud d’Italia da sempre è stato il più grande rifornitore del nord della nostra penisola i cui vini necessitavano di un’iniezione di corpo e grado alcolico.

Qualcuno, forse, ricorderà un periodo in cui molti vini del settentrione improvvisamente lasciavano a desiderare, non avevano più quell’ammiccare caldo e sensuale che spesso li distingueva, più o meno nello stesso periodo in cui i vini del meridione cominciavano a farsi notare per classe e potenza grazie a produttori che avevano deciso di imbottigliare anziché limitarsi a essere dei semplici rivenditori di vino sfuso. Casualità? Forse.

Adesso, però, si grida al tradimento del Brunello, ci si straccia le vesti in piazza col fiasco in mano e le gote arrossate, ma che dire allora di quei che il prosecco lo tagliano col trebbiano romagnolo o dello stesso chianti che “tanto ama” il nero d’Avola o il primitivo?

E in Romagna? La consistenza scura e importante del sangiovese, il carattere così addomesticato con tannini setosi e pienezza di profumi, pensate davvero che non sia dovuto ad un aiutino dei famosi vitigni internazionali? Nel caso Romagna sono stati più furbi, dal momento che il disciplinare veniva “aggiornato” di volta in volta per facilitare i lavori. Nell’imolese c’era addirittura chi utilizzava , se pur vietata, l’Ancelotta, famoso vitigno tintore reggiano, oggi, invece, pare che si possano utilizzare anche le uve di quei filari tenuti prima nascosti.

Tutte voci di corridoio, si intende, ma gli addetti ai lavori comprendono bene l’antifona. Strane leggi le nostre: il disciplinare recita di uve autorizzate e di altre consigliate. Le differenze sono appanno di molti, compresi gli stessi produttori, ma la traduzione, caricaturale, è presto fatta. Sono autorizzati i vitigni che, se pur non adatti al tuo territorio, li puoi utilizzare lo stesso, se poi qualcuno ottiene risultati eccellenti allora ecco che diventano consigliati perché ora quei vitigni – attenzione, gli stessi di prima-, si adattano perfettamente al territorio…; e poi si grida allo scandalo per un po’ di Brunello contraffatto; se andavano in Piemonte cosa poteva mai succedere?
 

Qualcuno ha dimenticato cosa accadde qualche anno fa quando scoprirono un “produttore” pugliese di vino al fertilizzante destinato ad alcuni barolisti?

È chiaro che non tutti i produttori e cantine pirateggiano tra le onde del vino mescolandolo e adulterandolo con artifizi di ogni genere. C’è davvero chi si dedica al territorio con tutti i rischi del caso e per fortuna sono la maggior parte, ma le grida allo scandalo per attirare un po’ di attenzione per vendere qualche copia in più è stato come urlare la scoperta dell’acqua calda o il segreto dell’uovo di Colombo.
 

Fabio Magnani, Giornalista enoico
fabiomag@linknet.it - autore del libro

Vini dal Cile Viaggio tra i profumi dei vigneti andini -
Edizioni Delmònt, Ravenna Marzo 2002

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