Queste profonde radici trovano origine e forza nelle storie arcaiche
e nel misterioso mondo dei nuraghi preistorici ma anche nella vita
dura e solitaria dei pastori, nelle campagne e nelle suggestive
atmosfere degli antichi vigneti. La presenza del vino e della vite
nella civiltà sarda risale a circa 5.000 anni orsono. Sono infatti
di quel periodo i reperti di anfore e coppe rinvenute nei pressi di
Nuraghi. Significativa in tal senso la scoperta del 1984 in
prossimità del Nuraghe Arrubiu di Orroli, in provincia di Nuoro, di
un arcaico impianto di produzione vinaria con tini e vasche per la
fermentazione e per la conservazione del vino. Durante i lavori di
scavo sono stati anche rinvenuti dei vinaccioli di varietà non
identificabili ma innegabilmente autocnoni.
A prescindere da questi antichi ritrovamenti è opinione consolidata
che una vera e propria introduzione della vite nell’isola sia stata
operata dai Fenici intorno al VII secolo a.C., specie a Tharros e
nelle altre colonie nella costa occidentale e sudoccidentale
dell’isola. Dopo i Fenici i Cartaginesi, i Romani e poi ancora
Genovesi, Pisani, Catalano-Aragonesi, Spagnoli, Piemontesi del Regno
Sabaudo. Nei secoli tanti conquistatori vennero dal mare ed è logico
che nel portare le loro culture e le loro tradizioni abbiano, seppur
non nella stessa misura, introdotto in Sardegna nuove varietà di uva
che si sono aggiunte alle autoctone, influenzando nel contempo le
tecniche viticolturali ed enologiche.
Questo non vuol dire che i sardi di allora si disinteressassero
della viticoltura. Eleonora d’Arborea, (sarda doc per rimanere in
tema di vini…) nel 1392 emanò la "Carta de Logu" importante raccolta
di leggi consuetudinarie di diritto civile e penale. Così
sentenziava la sovrana: " Chiunque possieda terre incolte deve
essere obbligato da un funzionario regio della contrada a
impiantarvi o farvi impiantare una vigna entro un anno, altrimenti
venda la terra o la dia a chi puo' coltivarla”.
Principi lodevoli ed innovativi per allora, meno accettabili da noi
“moderni” le relative pene. Venivano infatti considerate illegali le
vigne abbandonate e non curate, chi espiantava i vigneti di nascosto
doveva pagare un ingente rimborso e nei casi più gravi di insolvenza
era prevista anche l'amputazione della mano destra e la prigione.
Ma, quasi a contraddire questo interesse dei sardi alla vite ed al
vino, è curioso ricordare quanto asseriva Andrea Bracci nel “De
Naturali vinorum Historia” del 1596. L’autore considera il vino
sardo di buona qualità e definisce la regione: "Sardinia, insula
vini". Lamenta però il Bracci: “Sfortunatamente i sardi non fanno
grande uso di vino, in quanto il loro gusto e' poco educato e bevono
soprattutto acqua…”.
Per fortuna, almeno nel senso di un uso morigerato del dono di
Bacco, le cose da allora sono cambiate. E non solo gli “isolani”
apprezzano il frutto dei vitigni sardi , fra i più famosi e
coltivati non si possono dimenticare il Cannonau ed il Vermentino.
Per diverso tempo gli esperti sostenevano un origine di
“importazione” del Cannonau, si faceva riferimento al Cannonazo di
Siviglia, al Granaxa aragonese, all'Alicante introdotto in Sardegna
dai gesuiti, al Grenache della Francia. Ma, con buona pace di tutti
e con nostra soddisfazione, oggi prevale la ipotesi autoctona
suffragata da sofisticate indagini genetiche che indicano una genesi
“nuragica” del vitigno. E’ curioso ricordare l’amore per questo vino
da parte di Gabriele D’Annunzio che lo celebrò nella sua prefazione
al volume “Osteria” del giornalista tedesco Hans Barth. Ai primi del
900 il famoso poeta e scrittore abruzzese fece un memorabile viaggio
in Sardegna con Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella, quest’ultimo
“vittima” di una colossale sbronza di Cannonau ad Oliena in
provincia di Nuoro.
Così si esprimeva su questo vino sardo il vate e legionario fiumano:
"A te consacro, vino insulare, il mio corpo e il mio spirito...Possa
tu senza tregua fluire dal quarterolo alla coppa e dalla coppa al
gorgozzule. Possa io fino all'ultimo respiro rallegrarmi dell'odore
tuo, e del tuo colore avere il mio naso sempre vermiglio... - …sono
certo che se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi
dall'ombra delle candide rupi, e scegliereste per vostro eremo una
di quelle cellette scalpellate nel macigno che i Sardi chiamano
Domos de Janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi…” E non
siamo in pochi a condividere questo pensiero.
Se dai rossi passiamo ai bianchi, in questa famiglia il posto
d’onore è occupato dal Vermentino, prodotto in tutta la Sardegna ma
che in Gallura , unico D.O.C.G. isolano, assume delle suggestive
specificità. La sua probabile origine è la Spagna (Listan
d’Andalusia) per poi passare attraverso la Francia con i nomi di
Grosse Clarette, Malvois d’Espagne e Piccabon . In Italia,
conosciuto anche come Favorita di Piemonte, ebbe particolare fortuna
in Liguria ove divenne, Pizzamosca, Corbesso e Vemettino, con
quest’ultimo nome arrivò in Corsica e quindi in Sardegna dove fu
battezzato Vermentino.
Ricorda l’amico prof. Mario Pianezzi, Gran Maestro della
Confraternita del Vermentino: “Arrivato per ultimo dalla Corsica
attraverso le bocche di Bonifacio ( Bonum facio) a Santa Teresa
verso la fine dell’ 800 e i primi anni del ‘900 in un’isola che più
delle altre regioni italiane era stata funestata dalla fillossera
che aveva distrutto tutti i vigneti, e che si stavano lentamente
reimpiantando su piede americano, pian piano si diffonde verso
l’interno della Gallura imponendosi sugli altri vitigni per la sua
vigoria, per il buon acclimatamento e per le eccelse qualità del
vino che se ne ricava”
E qui la storia si confonde con la leggenda degli antichi vignaioli
galluresi che con il sudore ma con lungimiranza impiantarono i primi
vitigni di Vermentino facendosi faticosamente strada, tra le roccie
e la macchia mediterranea ricca di profumi, in una terra di
incomparabile bellezza sferzata dal maestrale salmastro. Ci piace
fare nostra la definizione di Pianezzi: “Vino evangelico, venuto ad
annunciare un altro miracolo della natura, a testimoniare come anche
in una terra dura e selvaggia, caratterizzata da terreni poco
fertili su disfacimenti granitici, poveri di humus, dove la macchia
mediterranea la faceva da padrona, possa allignare un vitigno che
poi da luogo alla nascita di un vino che emoziona come pochi per il
suo colore, per i sui profumi e per il suoi sapori.” Gli ultimi
saranno i primi… (Matteo 20.16)
Lorenzo Zicconi rettore della
Confraternita Enogastronomica Nord Ovest Sardegna
www.cnosardegna.it confcnos@yahoo.it |