05.12.2006 | Cultura e Tradizioni

Finchè c'è trippa c'è speranza...

E’ in libreria l’edizione 2007 de "Il Gambero Rozzo", la controguida delle osterie italiane che l’hanno scorso ha battezzato la sua nascita con sette ristampe. L’autore è il giornalista Carlo Cambi, cacciatore toscano di novità culinarie, che ha voluto "bonificare" la palude dei manuali gastronomici raccontando i locali dove si mangia bene pagando poco senza mai tralasciare la tradizione.

Questo Codice da Pinci, che non ha classifiche e simboli meritori, oltre a essere un viaggio gioioso in 1087 trattorie che ripropongono una sana cucina di territorio, è il preludio a una web-community (www.ilgamberorozzo.it) con segnalazioni e recensioni dei lettori. "Il mio intento è che i clienti diventino anche i giudici dei ristoranti – dice Carlo Cambi – Oramai i critici gastronomici hanno manie di protagonismo".

Titolo: Il gambero rozzo 2007. Guida alle osterie e trattorie d'Italia. Più che una questione d'etichetta è una questione di forchetta

Autore: Carlo Cambi
Prezzo: EURO 18,70 (Sconto 15% - Prezzo di copertina € 22,00. Risparmio € 3,30)

Dati:
728 p., rilegato

Anno: 2006

Editore: Newton & Compton

Collana: Guide insolite


A proposito di critici, come l’hanno presa i colleghi del Gambero Rosso?
Non tanto bene, ma alla lunga si convinceranno che non ho intenzione di rompergli le scatole. Ho semplicemente aperto un dibattito sulla cucina che dia posto a tutto. "Il Gambero Rozzo" non scimmiotta "Il Gambero Rosso" perché affronta un problema di contenuti non di etichette.

L’appassionato del mangiar bene preferisce la vecchia tradizione gastronomica o la nouvelle cousine alla moda?
Gli italiani continuano a preferire le trattorie, che oltretutto hanno col cliente un rapporto migliore di tanti ristoranti "paludati". Dividerei gli appassionati in due categorie: i ricercatori del gusto e i collezionisti di ristoranti Vip, che essendo ignoranti di cucina, si beano del fatto che hanno mangiato nel locale alla moda. Una buona ricetta è mangiare 200 volte all’anno in posti tradizionali e 10 negli altri per poi fare il confronto.

Non crede che i ristoranti a 5 stelle abbiano pubblicizzato la cucina italiana favorendo anche le trattorie?
Assolutamente si, ma le avanguardie servono a questo. Il nostro era un paese gastronomicamente depresso negli anni ’70, mentre oggi ha una cultura del cibo molto più alta. Ciò che mi preoccupa è che l’Italia smarrisca la sua cucina di tradizione a favore di una cucina che non ha una storia alle spalle. Perdere un piatto tipico significa dimenticare il percorso culturale di un intero popolo.

Lei divide i cuochi in artusiani, che accudiscono il cliente, e astrusiani, che cucinano per moda e affermazione. Mi può fare dei nomi?
Artusiani sono sicuramente Fulvio Pierangelini del Gambero Rosso di San Vincenzo (Livorno) o Nadia Santini del ristorante Dal Pescatore di Canneto sull'Oglio (Mantova). Astrusiani, invece, sono Carlo Cracco del milanese Cracco-Peck o Massimiliano Alajmo de Le Calandre a Sarmeola di Rubano (Padova).

Tra i locali campani sottolinea la pizzeria Brandi. La tradizione napoletana è troppo legata alla pizza che adombra il resto della cucina napoletana?
Brandi l’ho considerato un souvenir perché il libro è destinato a chi viaggia e voglio che l’impatto di fascinazione sia dato dalla ricetta ma anche dal contenitore della ricetta. La pizza è diventata un piatto internazionale e se si va all’estero non c’entra nulla con l’originaria. Deve necessariamente essere mangiata a Napoli, ma oggi il turista la considera come la Cappella Sistina: dato che ci sono molte riproduzioni non vale la pena che sia esaminata l’originale. La pizza deve essere ricordata nella sua autenticità proprio perché è diventata un piatto tradizionale talmente imbastardito che ha perso la sua identità.

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di Mario Vella
Campaniasuweb.it

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