Questo Codice da Pinci, che non ha classifiche e simboli meritori,
oltre a essere un viaggio gioioso in 1087 trattorie che ripropongono
una sana cucina di territorio, è il preludio a una web-community
(www.ilgamberorozzo.it) con segnalazioni e recensioni dei lettori.
"Il mio intento è che i clienti diventino anche i giudici dei
ristoranti – dice Carlo Cambi – Oramai i critici gastronomici hanno
manie di protagonismo".
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Titolo:
Il gambero rozzo
2007. Guida alle osterie e trattorie
d'Italia. Più che una questione d'etichetta
è una questione di forchetta
Autore:
Carlo Cambi
Prezzo:
EURO 18,70 (Sconto
15% - Prezzo di copertina €
22,00. Risparmio € 3,30)
Dati:
728 p., rilegato
Anno:
2006
Editore:
Newton & Compton
Collana:
Guide insolite
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A proposito di critici, come l’hanno presa
i colleghi del Gambero Rosso?
Non tanto bene, ma alla lunga si convinceranno che non ho intenzione
di rompergli le scatole. Ho semplicemente aperto un dibattito sulla
cucina che dia posto a tutto. "Il Gambero Rozzo" non scimmiotta "Il
Gambero Rosso" perché affronta un problema di contenuti non di
etichette.
L’appassionato del mangiar bene preferisce
la vecchia tradizione gastronomica o la nouvelle cousine alla moda?
Gli italiani continuano a preferire le trattorie, che oltretutto
hanno col cliente un rapporto migliore di tanti ristoranti
"paludati". Dividerei gli appassionati in due categorie: i
ricercatori del gusto e i collezionisti di ristoranti Vip, che
essendo ignoranti di cucina, si beano del fatto che hanno mangiato
nel locale alla moda. Una buona ricetta è mangiare 200 volte
all’anno in posti tradizionali e 10 negli altri per poi fare il
confronto.
Non crede che i ristoranti a 5 stelle
abbiano pubblicizzato la cucina italiana favorendo anche le
trattorie?
Assolutamente si, ma le avanguardie servono a questo. Il nostro era
un paese gastronomicamente depresso negli anni ’70, mentre oggi ha
una cultura del cibo molto più alta. Ciò che mi preoccupa è che
l’Italia smarrisca la sua cucina di tradizione a favore di una
cucina che non ha una storia alle spalle. Perdere un piatto tipico
significa dimenticare il percorso culturale di un intero popolo.
Lei divide i cuochi in artusiani, che
accudiscono il cliente, e astrusiani, che cucinano per moda e
affermazione. Mi può fare dei nomi?
Artusiani sono sicuramente Fulvio Pierangelini del Gambero Rosso di
San Vincenzo (Livorno) o Nadia Santini del ristorante Dal Pescatore
di Canneto sull'Oglio (Mantova). Astrusiani, invece, sono Carlo
Cracco del milanese Cracco-Peck o Massimiliano Alajmo de Le Calandre
a Sarmeola di Rubano (Padova).
Tra i locali campani sottolinea la pizzeria
Brandi. La tradizione napoletana è troppo legata alla pizza che
adombra il resto della cucina napoletana?
Brandi l’ho considerato un souvenir perché il libro è destinato a
chi viaggia e voglio che l’impatto di fascinazione sia dato dalla
ricetta ma anche dal contenitore della ricetta. La pizza è diventata
un piatto internazionale e se si va all’estero non c’entra nulla con
l’originaria. Deve necessariamente essere mangiata a Napoli, ma oggi
il turista la considera come la Cappella Sistina: dato che ci sono
molte riproduzioni non vale la pena che sia esaminata l’originale.
La pizza deve essere ricordata nella sua autenticità proprio perché
è diventata un piatto tradizionale talmente imbastardito che ha
perso la sua identità.
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di Mario Vella
Campaniasuweb.it |