Nelle
grandi fabbriche per sostituire gli
operai per le necessità dell'industria bellica, nelle
campagne al posto dei mariti nei
lavori più pesanti. ''Fare il vino non
potete'' scrive a Livia il
fratello Giovanni dal lager di prigionia austriaco, siamo
nel 1917. Livia ha solo diciannove anni, il papà è infortunato, sta
in ospedale, ma non ha un attimo di esitazione.
Non è possibile non 'fare il vino'
a Sant'Antonio di Canelli, la culla storica
del Moscato.
Livia non si arrende, scrive al fratello, "Abbiamo deciso di farlo
lo stesso il Moscato''. Ecco la vera storia di
Livia Bera, donna del vino, autentica figura
di 'anello forte' di tante famiglie contadine.
Sant'Antonio di Canelli, 1917.
Giovanni ha scritto dalla prigionia, da due anni è stato chiamato
alle armi, il suo reggimento ha combattuto sull'Isonzo; è stato
preso prigioniero e portato in Austria. Giovanni ha scritto per
tempo, voleva che Livia sua sorella leggesse bene la lettera. ''Così
dovete venderla l'uva, che se è poca la pagano ancora bene. Del
resto col papà in ospedale, tu sei troppo giovane e la mamma ha il
suo da fare, avete solo quei due ragazzi della Langa che in cantina
sono buoni a niente. Fare il vino non potete, che lì la gente ci
vuole. Va a finire che fate qualche pasticcio e sprecate tutto''. (Soldato
Bera Giovanni, prigioniero di guerra 22538, campo di prigionia
Gefanghenenlager, Ewicrau, Sachsen, 1917).
Livia mette da parte la lettera, nel caldo serale di fine agosto ha
altro a cui pensare, nei prossimi giorni con sua mamma Rosa, andrà
dal farmacista di Canelli, per acquistare un po' di soda, servirà
per lavare i sacchi olandesi. A vendere le uve non ci ha mai
pensato. È un dovere fare il vino a Sant'Antonio di Canelli, pensa
Livia, così suo padre, così suo nonno; quel mosto dorato, dolce e
profumato, che goccia a goccia scendeva dai teli appesi, era
difficile da lavorare: accettavi fatica, insonnia, paura. Soltanto
dopo San Martino respiravi: il Moscato si
calmava, metteva buon senso e, a differenza di altre zone, non
rifermentava più.
Livia non conosce i motivi per cui i moscati di queste terre sono
rinomati. Una volta suo fratello leggeva un vecchio testo sul
Moscato, l'autore si chiamava Strucchi,
c'era scritto che dalla borgata veniva metà del Moscato prodotto in
tutta la zona, oltre 75.000 quintali di uva. Saranno le
terre, piene di calcare con poca sabbia e poco
potassio; sarà quel tufo bleu
disfatto, segno di un terreno antico; saranno le
vigne tutte a sorì di mezzogiorno;
sarà l'andamento della vallata poco esposta ai venti; sarà la fama
ormai acquisita da queste terre, da queste vigne, da queste
cascine...
Tutti cercano le uve, tutti cercano il vino. È di Sant'Antonio di
Canelli. ''Abbiam deciso di farlo lo stesso il Moscato e vedremo
come andrà a finire. I vicini hanno promesso di darci una mano, ché
non farlo è troppo un peccato, e speriamo che andrà bene''. (Livia
Bera al fratello Giovanni, 1917). È iniziata la
vendemmia, siamo a fine settembre, il tempo è bello, l'uva è matura,
dolce. Di norma non si raccoglie il moscato
prima di San Matteo e la barbera prima di San Michele.
Per aiutare Livia sono
arrivati due manovali da Feisoglio, c'è anche sua zia Maria,
sposata a Nizza. In cantina è tempo di pulizie, Livia ha
lavato i sacchi con
molta cura, ha risciacquato i
garˆòss, un meccanico di Canelli ha provato il
torchio rotondo della
Gambino, lo ha spalmato bene con
grasso enologico; quando nella piccola cantina
sono risuonati i rumori dei saltarelli, Livia ha subito
pensato all'altra vendemmia. |
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Allora c'era suo fratello, in licenza agricola. Per un attimo un po'
di apprensione l'invade: riuscirà a filtrare per tempo? Il Moscato
inizierà a fermentare?, riuscirà a pesare dolce? Livia ha lo sguardo
fisso sulle vigne davanti a casa sua, avverte il momento particolare
fatto di fretta, di voglia di portare via i grappoli, di frasi
ripetute chissà quante volte, chissà per quanti anni, ai parenti,
agli amici; sullo sfondo si vede la
settecentesca chiesa dedicata a Sant'Antonio.
Hanno riempito le prime gorˆbé, Livia si è raccomandata, ma le
manovali sono pratiche, è la quarta vendemmia che fanno qui a
Canelli. ''Togliete il secco, mi raccomando''.
Per la raccolta dell'uva si fanno tre passaggi a Sant'Antonio,
l'uva deve essere assolutamente matura, volta per volta si lasciano
dietro i grappoli non ancora dorati. Ormai l'aia si sta riempiendo
d'uva, Livia parla alle manovali: ''Bisogna iniziare a fare il
mucchio sotto il portico, i gorˆbon vanno svuotati, bisogna avere
uva sufficiente per riempire il torchio Gambino, almeno trecento
milia''.
''Ecco versate i grappoli per terra. Piano! Non devono rompersi gli
acini. Fate uno strato, poi andate in là, piano, piano''. Le
manovali sono attente, anche se un po' perplesse; sembrano dire
''per terra?''. ''Quanto restano?'' - chiedono - ''Una
settimana, anche dieci giorni o più - dice Livia - devono
appassire bene, speriamo nel sereno e nel vento. Hanno sempre fatto
così'' dice Livia. Il grado zuccherino
aumenta un po', inoltre si devono fare meno filtrazioni ed il vino è
più profumato. Questa era una pratica diffusa su quelle
colline, fino a metà degli anni settanta.
Hanno chiamato Carlo, viene da una cascina vicina, è piccolo e
resiste alla fatica; sale sull'àrˆbi colmo d'uva, quella appassita
per terra. Carlo ha i piedi nudi ed i calzoni risvoltati sino al
ginocchio. Livia si raccomanda: ''C'è tanta uva, stai attento, non
affondare, non spingere troppo''. Carlo dice ''Stai tranquilla, ero
un bambino e pigiavo già''. Inizia a
pestare i primi grappoli, poi si appoggia con le mani
alla parete dell'àrˆbi, continua a pestare, senza premere troppo,
dal foro in basso inizia a scendere il mosto.
È limpido, l'uva ha funzione filtrante.
Carlo continua a pigiare. Sembra non si muova mai dallo stesso
posto, solleva le ginocchia e quasi non sposta i piedi. Arriva la
serventa che viene appoggiata alla parete dell'àrˆbi, sopra si mette
la bassetta che verrà riempita con l'uva pigiata.
Livia la porta nella gabbia del torchio,
è pesante, cammina con difficoltà, ma sono pochi metri. Carlo ha
quasi terminato, raccoglie l'uva intera, la sposta contro il foro di
uscita dell'àrˆbi, deve ancora filtrare un po' di mosto, poi pigierà
anche quella.
È dura la leva del Gambino, dopo i primi giri è solo questione di
muscoli, Livia ha chiamato un altro vicino;
dall'enorme base in ghisa del torchio, esce il
liquido, i saltarelli scivolano veloci nel grasso degli ingranaggi.
Livia e i garzoni portano i garˆoss, pieni di mosto, in alto, nella
vasca in cemento; devono salire una stretta scala in legno, facendo
attenzione a non rovesciare. ''Il torchio è al massimo, non dà più -
dice il vicino - dobbiamo tagliare la rapa''. Si fermano gli
ingranaggi, si allentano i fermi, si tolgono gli incastri ed i
coperchi, si apre la gabbia.
L'odore della ràpa è inconfondibile, come
quello del primo mosto. Livia prende una vanga dal manico
corto, taglia un pezzo di ràpa e lo butta sopra, così per tre
quattro pezzi. Si rimette a posto il torchio, si dà di nuovo, in
tutto si passa tre volte. ''Si toglie tutto dalla ràpa'' dice il
vicino. ''Certo, ma l'ultima torchiata non
la usiamo, non va con il mosto nella vasca. Facciamo il Gareglio, è
un secondo vino, lo chiamiamo così''.
Livia sale ancor una volta la ripida scala in legno, vuole
controllare il livello della vasca, scivola subito su un gradino,
per fortuna riesce a tenersi. Scivolare è facile, con quello strato
sottile, invisibile di Moscato che è dappertutto, sul pavimento,
nelle mani, nei vestiti, nell'aria. Livia ormai ci convive, si è
abituata.
Livia non sa come fare, ha paura, tanta paura, non riesce a prendere
sonno. È di nuovo salita su dalla vasca, ha ripercorso la stretta
scala, non riesce a stare lontano da dove il Moscato forma la
coperta, deve controllarne la superficie, è ancora compatta, ma per
quanto tempo ancora? Con le dita, delicatamente,
sposta lo spesso strato superficiale, sotto il
liquido per il momento è calmo. Livia sa che è questione
di attimi, non deve assolutamente rischiare, guai se inizia a
muoversi ed intorbidirsi, non si fermerebbe più.
Torna sotto, prende la pesante sveglia in mano, cerca di regolare la
suoneria, ma per quanto? mezz'ora? basterà?, ci ripensa, solo
quindici minuti. Si butta su un vecchio pagliericcio bucato, è
troppo stanca, piena di pensieri, resta sveglia. Sarà così per
alcune notti, è il periodo delle coperte. ''Il più brutto'' diceva
suo padre. Ha imparato tutto, anni fa, la colla l'acquista a Canelli
dallo speziale Drago, è in pacchetti bleu, non usa bisolfito, l'uva
è sana. Le coperte vengono in 8-10 ore,
qualche volta impiegano più tempo, anche 14 ore o più, dipende
dall'annata, se il Moscato è più grasso'' diceva suo
padre.
Livia è di nuovo vicino alla vasca, osserva la coperta, lo spessore
dello strato marrone sembra aumentato, anche il colore è uniforme. È
il momento decisivo, il Moscato va
controllato a vista, appena iniziano a vedersi in
superficie accenni di crepe o tagli, bisogna aprire il rubinetto in
bronzo enologico e tirare il Moscato nella vasca di sotto,
altrimenti fermenta e addio coperta. Livia è arrivata con i sacchi
sulle spalle, sono pesanti, saranno almeno quaranta tele, servono
per due cambi, la vasca ha venti rubinetti,
è importante avere i cambi per non interrompere la filtrazione.
Suo padre diceva: ''Non lasciate che inizi a fermentare, filtrate
prima''. Vanno sempre a lavare i sacchi
alle Fontanette, una sorgente della vallata, sono sei
chilometri tra andata e ritorno. Livia inizia a legare i sacchi ai
rubinetti, stringe bene, prima ha pulito bene la vasca ove scenderà
il Moscato filtrato, prende il sacco della
''filtrina''; è una polvere bianca, a base di cellulosa,
che acquista a Canelli dal solito speziale; ne scioglie un po' nel
mosto, agita bene, poi apre i rubinetti. Spera che i sacchi non si
intasino presto, ha solo un cambio, poi andranno di nuovo alle
Fontanette per lavarli.
Nei prossimi giorni preparerà i Molton;
sono i sacchi per l'ultima filtrazione, è un feltro di
lana molto compatto, il Moscato esce brillante, non si filtra più.
Suo nonno ha usato altri filtri, c'erano i
sacchi quadrati in cotone, avevano una grondaia in rame
ed erano appesi a dei ganci, la grondaia convogliava il filtrato
dentro il mastello. Prima ancora si usavano dei sacchi appesi, fatti
con una mammella di capra ed appesi con dei bastoni, ma si
intasavano subito, sentiva dire dal suoi nonni.
Ogni tanto si chiede da quanti anni la sua famiglia produce Moscato
e quando arrivarono i suoi avi su queste colline. Le farebbe piacere
conoscere le radici. Una sola data è certa:
1758, in quell'anno è documentata la presenza
della sua famiglia, qui a Serra Masio borgata di Sant'Antonio di
Canelli. I terreni della zona erano del
Sovrano ordine di Malta, che
possedeva un'enorme quantità di terreni, oltre 450 giornate
piemontesi, poi iniziarono le vendite e i frazionamenti.
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È un giorno importante, si carica il
Moscato a Sant'Antonio, l'ultimo atto di lunghi mesi di lavoro
e di attese. Livia è soddisfatta, non pensava di arrivare a questo
giorno, alla sera quando è particolarmente stanca legge la lettera
di suo fratello in guerra ''Così dovete vendere l'uva''. Vende il
Moscato a Chiarle, lo ritira tutti gli anni, conosce tutti a
Sant'Antonio; anche se talora si discute sui prezzi, è un ottimo
mediatore ed apprezza la qualità di Sant'Antonio. |
È arrivato presto il tiro dei cavalli con
le bonze, lo chiamano ''la barra'', Livia sta riempiendo
la brenta fissata sulle spalle di Giulio, è venuto dalla frazione
dei Vadrini per aiutare nel carico, dicono sia un brentatore in
gamba. Il carico è quasi pronto, Giulio ha fatto un gran lavoro, ha
rovesciato pochissimo, si china con maestria, Livia ogni tanto si
chiede come fa. ''Sono dieci anni che mi chiamano per riempire le
bonze, mi ha insegnato mio zio a Calosso''.
Il conducente lega bene le corde. Sono in tutto quarantadue brente,
solo una parte del Moscato in cantina, il prossimo carico avverrà
tra due giorni dice il mediatore. Non ha assaggiato il vino, né
fatto campioni, come sempre. Un ultimo controllo ai
tappi, vengono ben schiacciati, battuti con il
martello, si prova a tirare la tela nera, l'autista
parte. È passata mezzora, Livia vede correre della gente verso
l'aia, sono i vicini, urlano: ''Il Moscato
è caduto, è finito nel fosso di Pratorotondo sul fondo del rivolo''.
Livia subito non capisce, poi con calma le spiegano. Sulla
''Viacrosa'' la strada è molto ripida, il tiro rallenta, cede una
corda per l'eccessiva pressione delle bonze, un attimo, si strappano
le corde, le bonze prendono a rotolare giù dal tamagnon, giù dalla
collina, sino al fondo, dove passava il ''riavolo''. Una corsa
folle, sradicando arbusti, viti, piante, si fermano solo al piano.
Sono i contadini di Serra Masio a
recuperare il Moscato: andarono tutti con i loro buoi,
nessuno aveva chiesto aiuto.
Livia rimane in ansia per tre ore poi le dicono che non si era perso
nulla, le doghe di robusto castagno avevano tenuto, anche i tappi.
Qualcuno dice che le botti erano ormai blocchi di fango, per questo
si erano salvate. Oggi è festa a
Sant'Antonio, è la festa del Moscato, si carica tutto,
con l'ultimo trasporto. Livia ricorda questo giorno, momento
conclusivo di tante fatiche, atteso per mesi e fonte di mille
discussioni: quanto pagheranno il Moscato? quanti beaumé farà?
quanto peserà? Hanno terminato di caricare; mentre parte il tiro,
Livia scherzando dice ''Mica rotolano di
nuovo le bonze?'' tutti sorridono.
In cucina sono al lavoro dal mattino, l'asse della madia è pieno
ingombro di tante cose, e la cucina sembra un campo di battaglia tra
padelle e casseruole, distese di raviole ed un via-vai quasi
frenetico: è il pranzo del Moscato,
passaggio d'obbligo del giorno del carico. Livia e Rosa
hanno sempre curato questo momento, tutte le famiglie ci tengono
moltissimo, diventano persino un po' ambiziosi, ci sono sempre il
mediatore, conducenti, manovali, parenti ed amici. Livia stende la
tovaglia bianca di Fiandra, è ancora del corredo di sua nonna, anche
i piatti e le posate sono per l'occasione.
Rosa ha preso in cantina molte bottiglie di Nebbiolo vecchio. Il
mediatore ha detto: ''Quest'anno vi ho fatto prendere dei bei soldi,
e in paga mi farete la finanziera''. In realtà sa benissimo che
mamma Rosa è una cuoca sopraffina, perché da giovane è stata a
servizio presso una ricca famiglia di Asti, e sa anche che
tutte le famiglie di Sant'Antonio fanno a gara
per preparare i pranzi più sontuosi quando si carica il vino.
Tutti quelli che vi partecipano ne parleranno a lungo, confrontando
l'abilità delle massaie, lodando e criticando.
Livia ha voluto far tutto senza economia, nonostante le proteste
della mamma: vuole ringraziare a dovere quelli che l'hanno aiutata e
soprattutto vuole fare bella figura nei confronti delle vicine.
Hanno persino fatto arrivare un grosso pane di ghiaccio da Canelli,
zie e cugine sono state arruolate per aiutare.
Fritto misto, raviole in brodo e asciutte, la
finanziera, l'arrosto, poi il bonat con gli amaretti e le pere
madernassa cotte nel Moscato con la cannella e glassate di zucchero.
Livia serve in tavola, c'è Giulio il brentatore che è un mangiatore
formidabile.
Ha già buttato giù due piatti di raviole; Livia passa con la basilla
ricolma: ''Ne prendi ancora, Giulio?''. Lui dice: ''Mah, non so,
dillo se ne prendo ancora!'' tutti ridono. Arriva in tavola la
finanziera, scoppia un ovazione indirizzata a mamma Rosa: nessuno a
Sant'Antonio la sa fare meglio di lei, raffinata, perfettamente
calibrata negli ingredienti, da gran signori.
Rosa spiega a tutti come ha imparato la
ricetta, in casa degli Ottolenghi, di come la buonanima
del Conte, gran buongustaio, la istruiva ''come si insegna il
Catechismo'' a preparare tale ghiottoneria.
Livia partecipa all'allegria, è contentissima nei suoi diciannove
anni, eppure ogni tanto si distrae, pensa alla guerra, a suo
fratello. Riuscirà a ritornare dalla prigionia? A Canelli è già
arrivata qualche cartolina azzurra ''.....il
comando della terza armata comunica che il milite è caduto sul
fronte....''. Il mediatore continua a bere Nebbiolo,
chiede notizie sul vino. Livia non risponde, il pensiero è alla
lettera di suo fratello Giovanni, prigioniero in Austria ''Fare il
vino non potete''.
Epilogo. Finalmente l'Audi parcheggia nel cortile della cascina. Non
è che Sant'Antonio sia ben indicato! riflette tra sé il guidatore,
mentre arriva una giovane donna, avrà
venticinque anni, è carina, i capelli sono castani.
''Buongiorno, mi chiamo Alessandra. È vero che conservate delle
lettere di un vostro antenato, militare sul fronte austriaco che
parla del Moscato? Mi interessano''. ''Sì, non voleva che mia prozia
facesse il vino, ma vendesse le uve; venga in casa, le vado a
prendere''.
''Aspetti un attimo, mi racconti qualcosa:
perché Sant'Antonio è così famoso?''. Intorno sono solo
vigneti, sulla destra del cortile si vede la cantina. ''Da
quanto tempo fate il Moscato?''. ''Non
lo so, da sempre credo, abbiamo notizie dal 1700, ma
ottant'anni fa mia prozia rimase sola e fece lo stesso il Moscato.
Le interessano quelle lettere?''.
''Molto, quest'anno continuerà Lei a fare
il Moscato?''. ''Sì''.
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