Mangiare non è solo una faccenda di olfatto e di gusto, ma di
emozione, di evocazione e di memoria.
Farine animali date in pasto agli
erbivori e ai pesci negli allevamenti ittici, vitelli ingabbiati
che non hanno mai visto un prato, e ora cibi manipolati
geneticamente per la loro miglior appariscenza,
produzione, conservazione e trattamento. La natura sembra
un ricordo lontano, non la madre di tutte le cose, ma
semplice materia prima da manipolare al meglio, dove "il
meglio" è deciso dal profitto, alla cui ottimizzazione la
tecnica fornisce, docile, i suoi ambigui strumenti e le sue
sospette procedure.
MANGIARE, l'atto apparentemente più banale e più ovvio
che uno possa immaginare, oggi in Occidente è divenuto
un problema che nei supermercati trasforma gli acquirenti
in attenti lettori degli ingredienti che compongono un cibo,
in
quell'ansia che toglie la gioia del gusto. Ansia di poter
essere avvelenati senz'altro, ma ancora di più ansia che si
distribuisce e, polverizzandosi, va a toccare tutte le valenze
simboliche che profondissime si radicano in ognuno di noi,
se è vero che, dalla notte dei tempi, ogni essere per vivere
doveva superare due incognite: trovare cibo e non divenire
cibo per altri. Noi occidentali, la seconda incognita
l'abbiamo superata, ma la prima, quella di trovare cibo che
non sia nocivo e alla lunga mortale, è tornato ad essere un
problema. Il passaggio dalla natura alla tecnica nel campo
dell'alimentazione sembra riportarci all'alba del mondo,
quando i primi uomini verificavano sulla propria pelle che
cosa era o non era commestibile. Solo che allora il fattore
decisivo era l'ignoranza, oggi sembra sia il profitto, se
dobbiamo giudicare dal giro d'affari del mercato dei
prodotti transgenici, dove gli interessi economici in gioco
sono enormi. Non so se i cibi transgenici ci avvelenano.
Non lo sa nessuno, neanche i biochimici e i genetisti che ci
lavorano. Troppo poco è il tempo trascorso per verificarne
gli effetti sul piano biologico, ma forse sufficiente per
assistere alla loro incidenza sul piano psichico e simbolico,
non essendoci comportamento umano più carico di
simbolismo (e di ricadute psichiche anche gravi come
l'anoressia e la bulimia) del comportamento alimentare.
Infatti, mangiare questo piuttosto che quello, cucinato in un
modo piuttosto che in un altro, in compagnia di alcuni e
non di altri, giudicare qualcosa commestibile, ritenere un
alimento buono o cattivo, serve a definirci più di qualsiasi
altra cosa. Innanzitutto come esseri viventi, mammiferi,
onnivori, esseri umani, appartenenti a una certa epoca,
cultura, classe sociale, famiglia, e infine come individui
unici e irripetibili, al punto che si potrebbe assumere la sola
storia dell'alimentazione per capire, più di quanto non ci
faccia capire la storia delle guerre, che cosa è stata davvero
la storia umana. E io direi anche quella individuale, se solo
pensiamo all'importanza che per ciascuno di noi hanno i
sapori dell'infanzia quando, ancor privi di ragione, ci
affidavamo al gusto e all'olfatto, i nostri sensi più arcaici,
che mettono in moto le zone più primitive del cervello,
anatomicamente e fisiologicamente inseparabili dalle nostre
percezioni e dalla nostra memoria. A tutte le sensazioni del
gusto e dell'olfatto si associa un'emozione a cui si connette
una reazione affettiva di piacere o dispiacere, che a sua
volta richiama altri cibi che abbiamo gustato in altri tempi e
in altri luoghi. La petite madeleine di Proust non è un
artificio letterario, ma un effetto fisiologico che, attraverso
l'assaporare e l'annusare, mette in moto la memoria e
soprattutto ci fa vivere e rivivere le emozioni. L'aroma
della cucina materna o quella del paese natio hanno un
potere di evocazione che suscita nostalgie senza pari,
quando quel gusto particolare non lo ritroviamo più. E non
c' è né caviale, né foie-gras, né cassoulet de cretes de
poularde bressanne con tartufi del Périgord a scaglie, che
possano compensare il triestino della perdita della minestra
di rape o il brianzolo della fetta di pane secco spalmata di
lardo. Non è solo una faccenda di olfatto e di gusto, ma di
emozione, di evocazione e di memoria.
La globalizzazione non incide solo sui mercati,
sull'occupazione, ma anche sulla qualità dei cibi sempre
più indifferenziati, quindi sul gusto che evoca
un'appartenenza, un reciproco riconoscimento, un'identità
specifica e una memoria individuata. A che cosa ci possono
ricondurre quei convenience-food come gli americani
chiamano quelle minestre instantanee, quelle pietanze in
polvere, quei cibi precotti, surgelati o da riscaldare che
spesso è possibile mangiare direttamente dalla confezione,
o quei junk-food che sono poi quegli hamburger indigesti,
quelle patate fritte che navigano nel grasso, quelle
merendine per bambini che sembrano fatte apposta per
diseducare al gusto e quindi all' emozione, alla
rievocazione e alla memoria? A questo degrado del cibo
ora si aggiungono i prodotti transgenici che accontentano
più l'occhio di quanto non soddisfino il gusto e l' olfatto.
Quasi una riproduzione a livello alimentare dei
comportamenti sessuali che oggi si affidano più al
voyeurismo di corpi (possiamo chiamarli per analogia
"transgenici"?) che al contatto di corpi normali. In questa
perdita dei sensi più primitivi che sono il gusto, l'olfatto e
il tatto, io vedo nell' uomo occidentale una sorta di
impoverimento del cervello antico, che ci fa provare
emozioni, che ci induce fantasie, che ci difende
istantaneamente dai pericoli e ci butta fragorosamente nella
gioia, a tutto vantaggio della corteccia cerebrale capace di
ragionare, ma sempre meno di sentire e provare emozioni.
Dopo la desessualizzazione dei corpi, oggi regolati più
dall'igiene che dal piacere, ci stiamo avviando verso la
deprivazione del gusto. Ma non basta, i cibi transgenici
aggiungono a questa deprivazione quel tanto di ansia da
avvelenamento che rende il rapporto con il cibo, già di per
sé complicato e ricco di connotazioni psichiche, un
rapporto inquieto. Un altro passo verso la riduzione della
gioia, la più elementare, quella intorno alla tavola, che dalla
notte dei tempi è il luogo eminente dove gli uomini hanno
fatto amicizia e creato società.