27.01.2002 | Vino e dintorni

Il vino nella letteratura italiana moderna

Nel «Calamaio di Dioniso», Pietro Gibellini ricostruisce la presenza di Bacco nella letteratura italiana moderna, Sette e Ottocento, dall’abate Parini a D’Annunzio...

QUANTO ha contato il vino nella letteratura italiana moderna? Non tanto (non soltanto) per l’ispirazione che ne abbiano tratto gli scrittori bevendo, ma per la sua presenza concreta e metaforica nell’opera, per la sua capacità di schiudere la via a una interpretazione inedita. Ce ne parla Il calamaio di Dioniso di Pietro Gibellini (Garzanti, pp. 184, L. 29.000), un critico e filologo provetto che non si vieta (già solo per questo gli sia dato merito) lo strumento della "leggerezza". Va subito precisato che con letteratura moderna si intende quella che, secondo l’uso accademico, tratta del Settecento e dell’Ottocento (assegnando il Novecento alla letteratura contemporanea). Che muove all’ingrosso, attraverso giunzioni e disgiunzioni, dall’Illuminismo al Romanticismo, dalla Scapigliatura al Verismo e al Decadentismo. Con l’abate Parini si comincia alla grande, per l’ambivalenza che il tema assume nei suoi versi e che si rispecchia nella psicologia dell’autore. Quello che adorna la mensa del "giovin signore" è un vino di lusso, le perifrasi classicheggianti lasciano capire che si tratta di Bordeaux e di Chianti, di Xerès e di Tokaj. E la denuncia della scioperatezza e del piacere smodato, la polemica egualitaria, non escludono nel poeta una sottile fascinazione. Del resto, non poteva avercela col vino il cantore della "vita rustica", propiziata dai doni del grano e della vite. La simpatia di Parini si manifesta perfino nella sua competenza da agronomo, attento alla qualità e alla esposizione dei terreni: "Allora - fu il vin preposto all’onda; e il vin si elesse - figlio de’ tralci più riarsi, esposti - a più fervido sol ne’ più sublimi - colli dove più zolfo il sole impingua". Di più, il vino diventa l’emblema stesso della sua poesia: entrambi nati da un lavoro accurato e da una giusta stagionatura, offerti a pochi, scelti amici che sappiano apprezzarli.
Le origini contadine preservano Parini dall’entusiasmo per il caffè, la bevanda cara all’età dei Lumi perché "eccita la ragione senza turbarla" (in quei locali "i fratelli Verri svolgono le discussioni ’engagées’ con i loro seguaci ’radical chic’"). Non lasciamoci ingannare dal tono a tratti spiritoso, come materia vuole, di Gibellini, che al momento giusto sa stringere l’apparente divertimento in feconda intuizione critica. Sottolineando ad esempio che, nella sua sollecitudine per i ceti popolari, la generazione romantica - e Porta, e Manzoni - esce dal caffè per entrare nell’osteria. E’ Porta in particolare che fa del "brindisi" un componimento politico, in cui corteggia e dileggia il potente di turno. Attraverso una rassegna dei vini lombardi, identificati con gusto, Meneghino leva il suo inno a una civiltà che invoca autonomia e buon governo.
Il dialetto si nutre di vino. L’osteria è il luogo deputato alla musa plebea di Belli. E’ il vivido e insieme tenebroso fondale di bisbocce, invettive, risse sanguinose, ruvidi affetti. L’astemio, "il bestemmio dar vino", commette una specie di sacrilegio. Il popolano di Roma concede qualsiasi cosa al papa re, pur di non rinunciare a quella, per così dire, disperata consolazione: "Noi mànnece a scannatte er giacubbino, - spènnece ar prezzo che te va più a core, - ma guai pe cristo a chi ce tocca il vino".
Sono molte le sollecitazioni offerte da queste "tappe enoiche" della nostra letteratura. Come la crescita morale del Renzo manzoniano, verificata attraverso la sua liberazione dagli eccessi cupi del bere (e dalla tentazione parallela della violenza). Come l’elogio del vino da parte del Leopardi moralista e filosofo (apprendiamo con sorpresa che non era astemio e apprezzava quello delle Marche). Bisogna leggere in proposito non i Canti ma lo Zibaldone , che consente di definire Giacomo "il più bacchico fra i letterati del suo tempo". Il vino, afferma a più riprese, acuisce la lucidità della mente e lo scatto dell’immaginazione. Anche quando produce sopore e ubriachezza ha il pregio di allontanare dall’uomo la coscienza della propria finitudine e infelicità.
E Verga? Gibellini segnala l’importanza vitale che hanno pane e vino per gli umili eroi dei Malavoglia , ma non gli sfuggono i riflessi simbolici di un bicchiere colmo. In Cavalleria rusticana compare un Turiddu (piccolo Salvatore) che è figlio della ’gna Nunzia (cioè dell’Annunziata), e c’è una colpa da espiare, un’ultima cena con gli amici, il vino rifiutato, il bacio del tradimento e una Pasqua: tanto da poter leggere "la folgorante storia verghiana come una laica ’passio’ in cui il vino e il sangue connotano una mancata eucarestia". Con gli Scapigliati il vino, in compagnia dell’assenzio, prende i colori della trasgressione pura e dell’autodistruzione, senza toccare peraltro le vertiginose profondità di un Baudelaire o di un Rimbaud. Così, il romanzo di Rovani, intitolato Cento anni , viene riassunto argutamente dal nostro esegeta in "cento anni di bevute". Scriveva Carlo Dossi che "della nuova letteraria vendemmia fatta coll’uva d’Alfieri, Parini, Foscolo, ecc. Manzoni è il vino, Rovani è il torchiatico, Dossi la grappa". Lo snobistico autore delle Note azzurre non si sottrae alle esalazioni alcoliche del tempo mentre abbozza la sua mappa morale e letteraria.
In Carducci il vino torna ad essere una schietta e salutare risorsa, fa decisamente buon sangue. Vien da dire che uscendo dai palazzi aristocratici, dalle taverne del popolo e della bohème, conquisti un posto d’onore alla tavola di una sia pur "democratica" borghesia. Enotrio Romano (così si firma all’inizio) attinge dal bicchiere vigore fisico e sdegno civile, in sintonia con gli spiriti fraterni della classicità. Osserva Gibellini che "il connubio fra amor di patria e amor di grappolo si prolungherà felicemente in tutta la sua produzione". I suoi "brindisi" (che saranno ripresi, e annacquati, da una generazione di poeti rivoluzionari) sono diventati proverbiali: "Vino e ferro vogl’io come a’ begli anni - Alceo chiedea nel cantico immortal: - Il ferro per uccidere i tiranni, - il vin per festeggiarne il funeral". Fino all’esuberanza sanculotta con cui si rivolge a Pio IX, ormai vinto e "prigioniero" in Vaticano: "Cittadino Mastai, bevi un bicchier!" Al di là dell’uso politico, la rossa bevanda giova tuttavia a riscaldare gli amori e le amicizie, ad attenuare la malinconia dell’autunno, della vita che fugge: "Ma per le vie del borgo - dal ribollir de’ tini - va l’aspro odor de i vini - l’anime a rallegrar".
Sono prelievi abbastanza scontati, ma inevitabili, che richiamano alla memoria lontane, irrecuperabili stagioni scolastiche. Più incuriosisce l’approccio a Pascoli, anche per la sua pungente modernità. E’ noto che la cantina di Castelvecchio era ben fornita e assiduamente visitata. Per questo Gibellini si stupisce che nelle Myricae e nei Canti non si avverta un gran profumo di vinacce e bottiglie. Si parla perlopiù di viti, di pampini e gemme, di grappoli, senza venire al dunque: "Ha tre, Giacinto, grappoli la vite. - Bevi del primo il limpido piacere; - bevi dell’altro l’oblio breve e mite; - e... più non bere". Nasce il sospetto che ci sia in Pascoli la "rimozione inconscia di un tabù" o la "cosciente volontà di nascondere con cura un vizio vergognoso". Resta il fatto che, per "far saltare il tappo della bottiglia", debba ricorrere all’autorità degli antichi, ai " Poemi conviviali , di ambientazione omerica e più generalmente classica. O ai carmi celebrativi della storia d’Italia. Dove mi piace sottolineare la clamorosa "barbèra" che il vignaiolo Ciapin deve conservare, fino a quando non tornino le spoglie del padrone morto eroicamente in Africa: "Ciapin fedele, frema negli oscuri - vetri segnati dalla cauta cera, - quella vendemmia! resti ancor, maturi - quella barbèra!".
Ancora più sorprendente è l’atteggiamento di D’Annunzio. Nella vita risulta pressoché astemio, se una volta si risolve a bere del vecchio Bordeaux per consiglio del medico non dura a lungo: "... mi son rimesso all’acqua mera", scrive all’editore e confidente Treves. Così, nelle naturalistiche Novelle della Pescara , il vino che lenisce le miserie di contadini e marinai è anche fonte di abbrutimento, di selvaggio stordimento. Mentre i personaggi mondani del Piacere , per quanto non ignorino champagne e cognac, indulgono preferibilmente, nella loro anglomania, ai rituali del tè. In verità non mancano qui e altrove i riferimenti al vino e all’ebbrezza, ma fungono come similitudini in cui si esprimono sensazioni ed eccitazioni di altra natura. Si beve con gli occhi, si deliba con il bacio la figura dell’amata, e Bacco sembra metamorfizzarsi in Venere."Egli vide Elena nell’atto di bagnare le labbra in un vino biondo come un miele liquido. Scelse tra i bicchieri quello ove il servo aveva versato un egual vino; e bevve con Elena". Ma anche nelle poesie, e massime nell’ Alcyone , l’ebbrezza, sensuale e panica, è sostanzialmente analcolica: "Arde l’ombra. La vigna è come il vino: - il grappolo sul tralcio si matura - poi che il raggio nell’uva è prigioniere. - La terra soffre nell’ebrietà". A soffrire è la stessa Madre sulla quale, nell’ Otre , D’Annunzio verserà religiosamente il vino: "E tu dirai, la pura fronte prono: -’Bevi l’offerta, o Terra. Io son tuo figlio’". Una restituzione, appunto, quasi una dispersione nella retorica dionisiaca di una inappetita bevanda.

FONTE:La Stampa

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