01.11.2001 | Cultura e Tradizioni

L'Halloween d'importazione

Il culto dei morti trasformato in teatrino del macabro. I fagioli che restavano a galla dopo la bollitura erano le anime dei defunti e si mettevano sotto la cenere.

Ci sono Halloween e Halloween, stando almeno a quelle tradizioni che arrivano da oltre Oceano e quelle invece che si sono sviluppate nella nostra terra. Lo scontro ormai è aperto, e la questione rimane: quale è il vero Halloween? Ognuno comunque è pronto a rivendicare quel ricordo dei morti di cui una tradizione tanto antica, forse celtica, ha caratterizzato questo culto. Non dimentichiamoci che proprio in quanto a cultura, come civiltà siamo nati nel momento in cui gli uomini hanno iniziato a praticare la sepoltura dei morti. E' come se in un certo qual modo Halloween fosse a sua insaputa il compleanno dell'umanità. A sentire le moderne maestre d'inglese delle elementari, che hanno trasformato magicamente il nostro pandoro di Natale (la novità dei supermercati del 2001) nel dolcetto o scherzetto di Halloween, questa festa è un grande gioco didattico e culturale. Le scuole dei nostri bambini cresciuti a pane e Pinocchio si sono trasformate così in teatrini del macabro. Le foglie e le castagne di carta crespa che abbellivano i muri delle classi di qualche anno fa con i segni dell'autunno, sembrano ormai un retaggio da libro Cuore. Eppure, era soltanto ieri. Oggi invece, Halloween ha imposto i teschi, le zucche, il sangue come vuole la tradizione d'oltre Oceano, creata nell'800 per celebrare le streghe di Salem. «Siamo degli ottimi copiatori - afferma lo scrittore e scultore Mauro Corona - anche quest'anno ci hanno rifilato quella festa dal nome impronunziabile di Halo-din, mi pare». A sostenerlo è un ertano Doc. che a novembre gira ancora in canottiera, protetto dagli scarponi e da una folta la barba che lo fa assomigliare ad un taleban nostrano. Il suo spirito montanaro però continua a trasformare le cime dolomitiche in pagine fitte di racconti. Montagne che sono dentro e fuori il suo studio di Erto: «Ci risiamo, quella roba da americani - dice lui - con le zucche e i mostri di plastica; in realtà, tutto questo ha riempito altre zucche, quelle di molte persone che non vogliono pensare che il concetto sacro della morte di questi giorni, dev'essere un modo per guadagnare tempo. Per vivere meglio e più intensamente». «Altro che spiriti: quelli "commerciali" semmai, sono coloro che senza mostrarsi si arricchiscono con le stupidate mostrate come cultura», afferma Corona. «Dalle nostre parti - spiega - si vive ancora con le vecchie armonie e gli antichi racconti. Per capire questo però, puoi essere qua come al centro di Milano con l'unica differenza che qui senti più facilmente gli spiriti dei camosci, delle piante che ti fanno sentire vivo. Capisci che il tuo corpo provato dalla fatica è un segno di matita che il tempo cancella...». «Tutto questo - continua lo scrittore - ti fa vivere più intensamente ogni momento della giornata come se fosse l'ultimo». «Vita e morte in montagna sono come l'aria: la trovo anche nei miei lavori, dentro le mie sculture. Lavori un pezzo di legno che era vivo. Vi scolpisci una qualsiasi forma, una maternità, un vecchio seduto o un bambino... e crei quella vita che porta in sé il principio della morte». «Ricordo ciò che diceva la vecchia Giobba, morta centenaria quando, dopo aver sepolto tutti i suoi nove figli maschi, trovava ancora il coraggio di ringraziare Dio per averglieli dati. E' questo che ci rende uomini capaci di guardare in faccia la Signora», come lui chiama la morte. E ancora: «Oggi molta gente ha perso il significato del dolore, quello che si prova quando perdi un caro, un amico, un vicino. Andiamo al suo funerale e dopo poco sono già col pensiero di cosa faranno domani. Ci si ritrova al bar a bere, si continua cioè a fare la vita di sempre. Allora - dice Corona- il dolore lo portavamo dentro per anni. Oggi siamo diventati tutti troppo pratici, anche nei confronti di questo profondo sentimento. In fondo, nel dì dei morti si torna ad inginocchiarsi per terra, a compiere un gesto di umiltà soprattutto per coloro che si ricordano dei defunti solo una volta l'anno». «Credetemi - sostiene il poliedrico artista - loro sono parte della nostra esistenza quotidiana, di quel passato di cui non ci possiamo staccare». «La morte tra i monti, molte volte ha lo sguardo di un vecchio come di un animale o una pianta colpita dal fulmine - come scrive in uno dei suoi racconti, parlando di quella camoscina a cui aveva sparato - lei era spacciata i suoi occhi erano passati dalla paura alla rassegnazione. Una rassegnazione che aveva la dolcezza dell'abbandono. In quello sguardo umile e nobile c'era tutto il suo animo, qualcosa di difficile da spiegare: è un'energia reale del cosmo...». Dopo questo fatto, Mauro Corona non ha più sparato un solo colpo: si è pentito, dice. Oggi si limita a correre tra i boschi: anche quattro chilometri di primo mattino per prendersi il giornale. S'inerpica tra le vette da buon scalatore. Passa le notti ad ascoltare i rumori del bosco e quando in paese non lo vedono sanno dove si trova: «Là - dicono loro- è nel suo mondo». «Oggi, la gente pare fregarsene di tutto in particolar modo della morte - risponde - puoi essere ovunque in città come in montagna, ma per carpire i segreti dell'esistenza occorre attenzione, soprattutto quando paradossalmente la morte è vita, come accade nel bosco, da sempre. Tutti invece corrono, presi dal vortice della velocità. Lo stesso Hallo-din di oggi non ha niente a che vedere con quella festa che quassù si celebrava negli anni '50-'60, quando qualcuno già allora bucava la zucca chiamata "mort" per metterci una candela dentro. Quella zucca rappresentava per tutti un cibo divino, tanto eravamo poveri. Allora, si preparava una ricetta a base di zucca, farina, fagioli bolliti sale e latte: era una specie di polenta ricchissima di calorie utili per l'inverno che avanzava. Erano i giorni in cui - ricorda Corona - mio nonno ci raccontava che le anime dei morti finivano sotto le panche o le sedie della cucina. Sapevamo di dover stare seduti con i piedi sollevati. Ci dicevano che la campana di S. Liberale annunciava l'arrivo di quei morti dall'aldilà. Allora, si preparava una pentola di fagioli bolliti: quelli che restavano a galla - mi spiegava mia nonna- dovevano essere le anime di Picìn, Osèt, quelle cioè dei nostri cari defunti. Per questo erano raccolti e messi sotto la cenere del focolare come se ripetessimo per loro un secondo funerale, come se tutto ciò dovesse essere un rito. Quando arrivava il freddo, si facevano i primi filò e si raccontavano le tremende cronache capitate a qualche paesano; come alla "Caroba", una donna di Erto che diceva di essere stata presa d'assalto da un gruppo di spiriti mentre tornava a casa. Dallo spavento si era tolta il fazzoletto di testa. Lei riuscì a fuggire, ma di quel fazzoletto non rimase altro che una traccia di polvere per terra, come segno della forza bruta degli spiriti che vagavano in quelle notti. Erano questi i nostri tabù, le paure di un popolo ricco di fede ma anche di superstizioni». Su tutto questo sta già scrivendo un nuovo libro dal titolo Il sacrificio del Ramarro dove storie e credenze si mescolano tra vissuto e raccontato. In quel mondo di mezzo e la realtà che riaffiora ogni anno, in questi giorni. «Racconterò delle paure, ma anche delle speranze - spiega Corona - di gente piegata dalle forze della natura che si aggrappava ai miti, come la storia del "Biancoscuro" che ci tormentava nelle notti fredde, di quel ponte "dea messa" dove ti aspettavano i morti per scaraventati giù, eccetera. Se Hallo-din fosse questo, cioè un ritorno alle tradizioni, ai vecchi racconti, alla pietà verso i defunti, sarebbe un ritorno ai pensieri antichi che varrebbe la pena di conservare. Invece, è un tuffo in quel consumismo fine a se stesso che poco ha da dirci». E conclude: «Gli americani hanno poco da insegnarci, anche in fatto di morte. Noi possiamo, schermirla, renderla ridicola, ma resta l'eterna domanda quel profondo dubbio di cosa ci aspetta dopo la vita. Tutto ciò non può durare il tempo di una festa: dev'essere invece, un motivo costante che ci porta a vivere meglio il tempo che ci rimane». E' sera ormai ad Erto, il silenzio della valle fa paura quanto il buio pesto: stanotte anche qui sarà Halloween, ma non ci saranno zucche illuminate. Forse, senza accorgercene siamo già entrati nel regno degli spiriti, in quello spazio dove Corona pare andare e tornare con i suoi ricordi: «No, non sono un visionario - spiega lo scrittore - semmai un uomo che cerca un contatto con il mondo vero. Per questo quando verrà la mia ora, sempre che abbia fortuna, cercherò un albero e aspetterò così l'arrivo della Signora. Starò sotto un larice e aspetterò che la terra mi succhi dentro, come un tempo facevano i vecchi. Trasformerò la mia morte in nuova vita, nuova terra, nuovi alberi. Passerò da questo mondo a quello delle anime dei boschi...», quei boschi dove in questa notte misteriosa, le ombre sembrano rivendicare i propri diritti per non essere dimenticate.

FONTE: IL MATTINO DI PADOVA

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