23.05.2011 | Prodotti Tipici Inserisci una news

Il Carmenere

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Di sicuro, come per i Cabernet, sappiamo che il Carmenère deriva dalla “Vitis biturica” giunta nel bordolese in epoca romana.....

anche se Plinio il Vecchio (nel 71 d.C.), riporta che veniva coltivata nell'attuale zona di Bordeaux dalla tribù celtica dei Biturigi, mentre Columella – poco prima – sostiene che provenisse da Durazzo (Albania) e sapeva che era coltivata in varie zone dell'Hiberia (Spagna) e in particolare nell'attuale Rioja.
Nell'eterogenea famiglia di vitigni neri coltivati nel secolo scorso nel bordolese, che genericamente erano chiamati "Cabernet", si sono distinti fino ad assumere indicazione autonoma il Cabernet sauvignon ed il gruppo dei Cabernet franc. E proprio tra quei Cabernet, come confermato da studi condotti in Francia all'inizio del Novecento ("Ampélographie", di P.Viala e V.Vermorel, 1905), vi era anche il Carmenère (il cui nome pare derivi dalla parola "carmine", per il colore particolarmente intenso del vino), identificabile per alcune particolarità morfologiche e soprattutto organolettiche delle sue uve. Fin dalla prima metà dell'Ottocento, infatti, il Carmenère era stato distinto dal Cabernet per i grappoli più grandi e più spargoli, per la vigoria, la scarsa fertilità, l'aroma e il colore più intenso delle bacche ("Ampélographie Universelle" di P.Odart, 1849), ma quando fu importato in Italia assieme agli altri Cabernet – probabilmente intorno al 1820 dal Conte di Sambuy che ne impiantò un vigneto in Valmagra – venne scambiato per una degenerazione ed indebolimento del Cabernet franc.
Come conseguenza, nel Veneto e in Friuli, questo tipo – notevolmente diffuso proprio perché la sua vigoria e la sua necessità di potatura lunga si potevano adattare alle condizioni di coltura e perché la grande qualità del vino poteva far sopportare produzioni anche scarse – diventava per ampelografi, studiosi e coltivatori il prototipo del Cabernet franc.

Negli anni Sessanta del Novecento, quando Calò e Liuni indagarono sui fenomeni di colatura cui andava soggetto il cosiddetto Cabernet franc presente nel Veneto, furono importate delle collezioni francesi di Cabernet franc lì coltivato, e le diversità tra i due tipi cominciò ad apparire evidente. Fu, però, attribuita a variabilità clonale, tanto che furono distinti nella pratica della propagazione, anche se impropriamente, un Cabernet franc di tipo francese ed un Cabernet franc di tipo italiano, che poi si dimostrerà essere Carmenère.

Fu un successivo studio di caratterizzazione varietale tra i cloni francesi ed italiani con marcatori biochimici a mettere in luce che si trattava, probabilmente, di due vitigni diversi. Dubbi dissolti da analisi condotte negli anni 1988-91 presso l'Istituto Sperimentale di Viticoltura di Susegana, che hanno evidenziato che:

La foglia del Carmenère è identificabile per essere leggermente più stretta, con i seni laterali più profondi ed il seno peziolare maggiormente sovrapposto, così com'era già stato messo in risalto da studi precedenti e come ha confermato l'analisi computerizzata.

Il grappolo è identificabile per la forma cilindrico-conica, ma soprattutto per la maggiore spargolicità dovuta a maggiore colatura; questa è la conseguenza di fiori anomali in discreta percentuale per la spilatura degli stami.

Fisiologicamente il vitigno è più vigoroso, leggermente più precoce di maturazione e meno fertile, soprattutto nelle gemme basali del capo a frutto. Anche questi elementi sono riportati in letteratura enologica precedente.

I patterns isoenzimatici dei sistemi enzimatici GPI e PGM sono differenti e caratterizzanti.

L'analisi chimica delle uve e del vino dimostra che il Carmenère è molto più ricco di 2-metossi 3-isobutil pirazina, giustificando così il maggiore sapore erbaceo anch'esso richiamato nelle vecchie descrizioni ampelografiche. Per quanto concerne i fenoli è più ricco in antociani e flavonoidi totali, confermando anche qui le vecchie descrizioni che parlano di uve più colorate. Inoltre l'uva ha una percentuale più bassa di peonina e di antociani acetati e più alta di antociani p-cumarati. L'uva mostra poi rapporti malvina acetato/malvina p-cumarato più bassi

L'analisi chimica dei semi rileva un rapporto catechina/epicatechina minore, così come è più basso il contenuto di acidi idrossicinnamil tartarici del mosto.

Sono trascorsi ben 17 anni dalla pubblicazione dello studio condotto da Antonio Calò, Rocco Di Stefano e Angelo Costacurta sulla Rivista Viticola Enologica che ha evidenziato inequivocabilmente che il vitigno Cabernet franc comunemente detto "italiano", diffusissimo nella Doc Piave così come in tutto il Veneto e il Friuli – è in realtà Carmenère. E dopo 17 anni suonano ancora "come nuove", un po' "per forza di cose", un po' perché scritte con accorta lungimiranza, le righe conclusive di quel lungo articolo: "Riteniamo così risolto l'equivoco del secolo scorso, quando al momento dell'importazione in Italia di questi vitigni furono commessi errori ampelografici che si sono mantenuti nel tempo anche per la scarsa conoscenza del Carmènere, via via abbandonato nelle coltivazioni francesi. Il movimento di rivalutazione dei vecchi vitigni di pregio sta ora risvegliando, anche nel bordolese, interesse per il Carmenère e l'aver mantenuto in Italia una culla culturale di questa varietà è fatto importante, specie se legato anche ad interessanti selezioni clonali effettuate".

( Fonte Marcadoc )

Annotazioni di Roberto Gatti

In Italia si stanno ottenendo ottimi risultati sui Colli Berici, in provincia di Vicenza, di cui ho scritto qui :

http://www.winetaste.it/ita/anteprima.php?id=4570

Ma i migliori Carmenere che ho degustato, fino ad oggi, sono sicuramente alcuni cileni che ho incontrato durante il mio viaggio in Cile nel novembre 2010, di cui al link:

http://www.winetaste.it/ita/anteprima.php?id=6357

e qui :

http://www.winetaste.it/ita/anteprima.php?id=6473carmenere

Buone letture

RG


Tag: vino, winetaste, gatti, colli berici, inama, carmenere, cile, ampelografia, varietà, viti, cloni


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